Rivoluzione o guerra n°29

(gennaio 2025)

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Dibattito sulla teoria della crisi del capitalismo : commenti su un articolo del BIPR (FICCI, 2004)

Pubblichiamo qui un articolo della Frazione interna della CCI (FICCI) del 2004. È stato pubblicato nel suo bollettino 26. L’obiettivo politico di questa ripubblicazione è duplice. In primo luogo, continuiamo il nostro sforzo di riappropriazione e riflessione sulla teoria della crisi e sui dibattiti che ha generato, iniziato nel numero precedente con la riproduzione del testo di Anton Pannekoek su La teoria del crollo del capitalismo. In secondo luogo, il testo della FICCI si basa su un articolo dell’allora BIPR, oggi Tendanza comunista internazionalista, che tornava sulla questione della decadenza, riaffermandone la realtà e mettendo in guardia da qualsiasi visione meccanica o fatalista della crisi del capitale, che lo vedrebbe crollare da solo, o almeno indebolirsi a tal punto che basterebbe un semplice colpo di mano del proletariato per distruggerlo. Ovviamente, condividiamo e sosteniamo questa visione e questa posizione.

Questo articolo ha anche il merito di presentare non solo il dibattito tra Pannekoek e Paul Mattick, che si svolse nell’ambiente consiliarista degli anni Trenta, sulla crisi stessa, ma anche le questioni politiche che vi stanno dietro: o come la visione catastrofica o fatalista della crisi sia legata al consiglierismo, quella moderna forma di opportunismo di stampo economista contro cui Lenin combatté all’inizio del XX secolo; come la visione, portata avanti da Mattick, secondo cui la catastrofe della crisi stessa e le sue ripercussioni sulle condizioni di vita del proletariato porterebbero meccanicamente quest’ultimo alla lotta rivoluzionaria. Il risultato è una sottovalutazione sia del ruolo che della dimensione, o scala, della coscienza di classe – e quindi del partito politico proletario.

Se il testo si fosse fermato lì, ci sarebbe stato un motivo sufficiente per ripubblicarlo oggi. Ma come bonus, e come ciliegina sulla torta, il testo della FICCI ritorna anche sulla teoria della decomposizione della CCI. Dimostra chiaramente che si tratta di una versione moderna della teoria opportunista del crollo automatico del capitalismo. Naturalmente, la critica della FICCI rimane all’interno del quadro programmatico della CCI originale – in particolare della sua piattaforma degli anni ’70 – e quindi anche della posizione di Rosa Luxemburg esposta nel suo libro L’accumulazione del capitale. Non poteva essere altrimenti, dal momento che la frazione si definiva e interveniva come “frazione interna” di quell’organizzazione. A questo proposito, il testo mostra chiaramente il salto “qualitativo” avvenuto tra il quadro di decadenza definito dalla CCI negli anni Settanta e l’adozione della teoria della Decomposizione e, soprattutto, la sostituzione di fatto della prima con la seconda. Non c’è dubbio che l’analisi originaria del decadenza della CCI presentasse delle debolezze concigliariste. Ma il passaggio alla decomposizione segnò l’inizio di un processo di messa in discussione delle posizioni storiche dell’organizzazione.

Oggi cominciano ad apparire critiche alla teoria della decomposizione della CCI, come le Contro-tesi sulla decomposizione apparse sul sito “opposition-communiste.org” o su quello della rivista consiliarista Controverses. Nel caso di Controverses, è deplorevole che sia arrivato tardi, poiché i redattori – o il redattore principale – non potevano essere all’oscuro della lotta della FICCI all’epoca, dato che erano ancora membri della CCI e ne difendevano la sua posizione contro la frazione.

Il senso di quest’ultima parte del testo della FICCI è proprio quello di argomentare, dimostrare, persino “smontare”, come la teoria della decomposizione sia tipicamente legata al consiglierismo e alle implicazioni politiche consiglieriste che essa comporta. Per noi oggi la teoria della scomposizione è stata sia un prodotto del concigliarismo congenito della CCI – che non è mai stato in grado di superare nonostante i suoi sforzi alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80 – sia un fattore di accelerazione di questa deriva opportunista del concigliarismo. Rimandiamo i lettori alla nostra critica della piattaforma della CCI e alla nostra piattaforma. [1]

Le note a piè di pagina sono della FICCI. Altrimenti, sono tra parentesi quadre e viene indicato il 2024. Non disponendo dei testi “classici” del marxismo in italiano (pochi sono disponibili sul sito marxists.org), abbiamo tradotto le varie citazioni dal testo originale dal francese o dallo spagnolo. Abbiamo tratto le citazioni del testo del BIPR dalla versione italiana disponibile su sul sitio de la TCI [2].

La redazione, gennaio 2025

Crollo automatico del capitalismo o rivoluzione proletaria (Frazione interna della CCI, 2004)

Con il titolo “Per una definizione del concetto di decadenza”, il BIPR ha recentemente pubblicato, prima in italiano su Prometeo 8 del dicembre 2003, poi sul suo sito web in inglese e francese, un articolo in cui presenta apertamente e sinteticamente la sua posizione sul concetto di decadenza del capitalismo. L’articolo non solo riconosce che il concetto ha “valore”, ma discute la differenza tra una chiara nozione di decadenza del capitalismo e quella che sarebbe una “falsa prospettiva”. Riconosce esplicitamente l’esistenza di una fase ascendente e di una fase decadente del capitalismo.

“La valenza del termine decadenza risiede nell’identificare quei fattori che, nel processo di accumulazione del capitale, nella determinazione delle crisi cicliche, come di ogni altra forma di espressione delle contraddizioni economiche e sociali della società capitalistica, rendono tutti questi fenomeni più acuti, meno amministrabili, sino a mettere sempre più in difficoltà i meccanismi stessi che presiedono al processo di valorizzazione e di accumulazione del capitale. (…) L’indagine sulla decadenza o individua quei meccanismi che presiedono al rallentamento del processo di valorizzazione del capitale, con tutte le conseguenze che ciò comporta, o rimane dentro una prospettiva falsa, vanamente profetica o, peggio ancora teleologica, priva di qualsiasi riscontro obiettivo.”

Ci rallegriamo e sottolineiamo l’importanza della pubblicazione di questo articolo perché apre la possibilità di una discussione seria e approfondita sulle intese e le divergenze su questo tema che, alla luce della prospettiva aperta dall’11 settembre 2001, è più che mai attuale e richiede il massimo chiarimento da parte dei rivoluzionari [3]. Il modo migliore per farlo è esprimere le nostre riflessioni e i nostri commenti critici e allo stesso tempo invitare i gruppi e gli elementi del campo proletario a partecipare a questo necessario dibattito [4].

Poiché vengono affrontati diversi aspetti, inizieremo tornando qui solo sulla prima preoccupazione espressa dal BIPR nel suo testo in relazione a una confusione che è esistita nel campo proletario tra la nozione di “decadenza” e quella di “collasso economico” del capitalismo. Diamo la parola al BIPR (corsivo aggiunto) :

“Il termine decadenza, inerente alla forma dei rapporti di produzione e alla società borghese di riferimento, si presenta con aspetti di valenza ma anche di ambiguità. L’ambiguità risiede nel fatto che l’idea di decadenza, ovvero di progressivo declino della forma produttiva capitalistica, provenga da una sorta di ineluttabile processo di auto distruzione le cui cause sono riconducibili all’aspetto essenziale del suo stesso essere, e si paragona il declino auto distruttivo all’annichilimento della materia nell’impatto con l’antimateria in una sorta di percorso obbligato dove le due forze, tra di loro contraddittorie, vanno progressivamente avvicinandosi sino a produrre la reciproca distruzione. L’approccio atomico fa il paio con quello teleologico, per questa impostazione la scomparsa e la distruzione della forma economica capitalistica sarebbe un evento storicamente dato, economicamente ineluttabile e socialmente predeterminato. Il che, oltre ad essere un approccio infantilmente idealistico, finisce per avere delle negative ripercussioni sul terreno politico, ingenerando l’ipotesi che per vedere la morte del capitalismo sia sufficiente sedersi sulla sponda del fiume, o al massimo creare nelle situazioni di crisi, e solo in quelle, gli strumenti soggettivi della lotta di classe come ultima spallata ad un processo per altri versi irreversibile. Niente di più falso, l’aspetto contraddittorio della forma produttiva capitalistica, le crisi economiche che ne derivano, il ripetersi del processo d’accumulazione che dalle crisi è momentaneamente interrotto ma dalle quali riceve nuova linfa attraverso la distruzione di capitali e mezzi di produzione in eccedenza, non portano automaticamente alla sua distruzione. O interviene il fattore soggettivo che ha nella lotta di classe il suo fulcro materiale e storico e nelle crisi la premessa economicamente determinante, oppure il sistema economico si riproduce riproponendo a livelli più alti tutte le sue contraddizioni, senza per questo creare le condizioni della propria auto distruzione.”

Proprio così! L’idea che il capitalismo, entrando nella sua fase di decadenza, possa autodistruggersi, crollare da solo, sotto il peso delle sue contraddizioni puramente economiche, ai margini della lotta di classe, ha dovuto essere combattuta con coerenza nel corso della storia nel campo marxista. Abbiamo già accennato a questa questione, di sfuggita, in varie parti della nostra serie sulla decadenza. Ricordiamo, ad esempio, come Rosa Luxemburg avesse già dovuto mettere in guardia da questa possibile interpretazione della sua teoria:

“Attraverso questo processo, il capitale sta preparando il proprio collasso in due modi: da un lato, espandendosi a spese delle forme di produzione non capitalistiche, anticipa il momento in cui l’umanità nel suo complesso sarà effettivamente composta solo da capitalisti e proletari, rendendo così impossibile ogni ulteriore espansione e quindi ogni accumulazione. D’altra parte, nella misura in cui questa tendenza si impone, esaspera gli antagonismi di classe e l’anarchia economica e politica internazionale a tal punto che, molto prima che l’evoluzione economica raggiunga le sue conseguenze finali, ossia il dominio assoluto ed esclusivo della produzione capitalista, sorgerà la ribellione del proletariato internazionale che porrà necessariamente fine al regime capitalista.” (Rosa Luxemburg, L’accumulation du capital, Critique des critiques [5])

“Rosa Luxemburg spinge il suo ragionamento teorico fino ai limiti in cui qualsiasi accumulazione sarebbe ‘impossibile’. Subito dopo, come per mettere in guardia da false conclusioni, precisa che ‘molto prima sorgerà la ribellione del proletariato internazionale.’ Questo punto limite è solo un ricorso teorico, una sorta di inaccessibile ‘fuoco d’orizzonte’, il cui unico significato è quello di sottolineare il limite storico del capitalismo. Ciò era tanto più necessario all’epoca perché bisognava combattere la pericolosa teoria dello ‘sviluppo illimitato e pacifico’ del capitalismo. Solo più tardi, in altre circostanze storiche, quelle della controrivoluzione staliniana, e di fronte a un’altra lotta politica, quella contro la teoria della ‘stabilizzazione’ del capitalismo, si sviluppò la teoria della ‘caduta’ del capitalismo, una teoria talvolta erroneamente attribuita a Rosa Luxemburg, secondo la quale il capitalismo poteva crollare raggiungendo un punto di contraddizione ‘economica’, senza la mediazione della lotta di classe, che Rosa Luxemburg rifiutava esplicitamente.” (Guerre impérialiste ou révolution prolétarienne, boletino n°19 de la nostra frazione, giugno 2003)

La “teoria del collasso del sistema capitalistico” di Grossmann

Ma è sicuramente a partire dalla seconda metà degli anni Venti, e in particolare con La legge dell’accumulazione e il crollo del sistema capitalistico di Henryk Grossmann, che nasce la principale fonte di confusione tra la nozione di “decadenza” e quella di “crollo economico” del capitalismo.

Grossmann cercava di combattere le teorie che difendevano la possibilità che il capitalismo potesse raggiungere una situazione di equilibrio, di sviluppo pacifico e illimitato senza crisi. Tuttavia, nel farlo, eresse una teoria particolare che, nonostante la sua pretesa di essere la prima a “ricostruire il metodo e a chiarire il sistema teorico di Marx”, in realtà conteneva profonde deviazioni sia dal metodo storico-materialista sia dalla teoria dell’accumulazione capitalistica di Marx:

- in primo luogo, rifiutando i precedenti sviluppi teorici del campo rivoluzionario in relazione ai limiti storici del capitalismo e della decadenza (in particolare la teoria di Rosa Luxemburg, ma non solo) come semplici interpretazioni “errate” di Marx, senza prima cercare di comprendere il loro significato storico, la specifica lotta di classe che esprimevano, o la verità storica relativa a un periodo specifico che contenevano ;

- in secondo luogo, deducendo speculativamente la sua teoria, non dall’effettivo sviluppo storico ma da una nuova interpretazione dei famosi “schemi di riproduzione” di Marx, e prendendo poi alcuni eventi reali come “prova” di questa teoria. Grossmann ha ripreso gli schemi sviluppati da Otto Bauer per confutare Rosa Luxemburg e li ha portati avanti aritmeticamente per diversi decenni, dimostrando addirittura che questi schemi alla fine hanno portato alla paralisi e al “crollo” dell’accumulazione capitalistica. Con questa “verifica”, Grossmann avrebbe potuto facilmente arrivare alla stessa conclusione di R. Luxemburg: cioè che il problema del futuro storico del capitalismo non può essere risolto elaborando una sorta di diagramma. Invece, Grossmann si lancia in un’intera teoria del “crollo del capitalismo” causato da una “mancata valorizzazione in relazione alla sovra-accumulazione”, da una “diminuzione della massa di plusvalore”, che è una pura deduzione dallo schema che ha elaborato. Così facendo, però, ha spostato il problema cruciale dell’economia politica che Marx era riuscito a spiegare criticamente, ossia la tendenza del tasso di profitto a diminuire come prodotto della contraddizione fondamentale tra la tendenza allo sviluppo illimitato delle forze produttive e i rapporti di produzione capitalistici limitati dalla ricerca del profitto, dall’accumulazione; ha tralasciato proprio la tendenza dietro la quale si scopre l’esistenza di un limite storico al capitalismo ;

- in terzo luogo, concludendo dalla sua stessa teoria che il capitalismo crolla solo sulla base delle sue contraddizioni economiche, Grossman arriva alla conclusione che l’accumulazione diventa “inutile” per i capitalisti:

“Nonostante tutte le interruzioni periodiche e tutte le attenuazioni della tendenza al collasso, con il progredire dell’accumulazione capitalistica, il meccanismo globale si avvia necessariamente verso la sua fine. Infatti, con la crescita assoluta dell’accumulazione di capitale, la valorizzazione del capitale generato diventa gradualmente più difficile. Se queste tendenze opposte si indeboliscono o si paralizzano a vicenda (...), allora la tendenza al collasso diventa predominante e la sua validità assoluta si impone come ‘ultima crisi’. [6]

Questa nozione di “collasso economico” viene ripetuta in tutto il libro di Grossmann, fino a diventare il modello tipico per la concezione di una fine “automatica” del capitalismo, anche se Grossmann stesso (e i suoi difensori come Paul Mattick) cercano di respingere questa nozione. Così, nell’ultimo capitolo del suo libro, egli considera effettivamente la questione della lotta di classe come il quadro in cui emerge l’intera questione economica. Tuttavia, Grossmann riduce la lotta di classe agli aumenti salariali, alla pressione che la lotta per gli aumenti salariali esercita sulla tendenza al collasso economico: la tendenza al collasso diminuisce se i salari diminuiscono e accelera se aumentano. E, nello stesso senso, riduce l’importanza della rivoluzione:

“L’obiettivo finale per cui la classe operaia lotta (...) consiste, come indica la legge del collasso qui evidenziata, nel risultato prodotto dalla lotta di classe immediata di ogni giorno, la cui materializzazione è accelerata da queste lotte.” (Ibidem, Considerazioni finali)

In altre parole, la lotta per i salari (“la lotta immediata di ogni giorno”) “accelera la materializzazione” del collasso economico del capitalismo. In definitiva, Grossmann riduce la lotta di classe (una volta già ridotta alla lotta per i salari) a una variabile all’interno della sua teoria economica del collasso, fino alla rivoluzione. Non nega “la questione politica che riguarda el potere”, non nega la necessità della rivoluzione proletaria, ma le identifica “semplicemente” con il collasso economico. Li diluisce in quest’ultimo. Ma poi, come sottolinea il BIPR:

“Oltre ad essere un approccio infantilmente idealistico, finisce per avere delle negative ripercussioni sul terreno politico, ingenerando l’ipotesi che per vedere la morte del capitalismo sia sufficiente sedersi sulla sponda del fiume, o al massimo creare nelle situazioni di crisi, e solo in quelle, gli strumenti soggettivi della lotta di classe come ultima spallata ad un processo per altri versi irreversibile.”

La corrente “consiliarista” e la teoria del crollo

La teoria di Grossmann fu al centro di importanti discussioni nel campo proletario degli anni Trenta, soprattutto all’interno della corrente dei comunisti dei consigli.

Anton Pannekoek lo rifiuta e lo critica non solo dal punto di vista teorico, ma anche dal punto di vista del metodo. Secondo Pannekoek, Grossmann sosteneva una posizione meccanicistica in cui le leggi sociali ed economiche si imponevano agli uomini come se fossero una “potenza sovrumana” indipendente. Per Marx, invece, esiste un rapporto dialettico tra le leggi e le necessità sociali e la volontà e l’azione umana.

“Per Marx, lo sviluppo della società umana, cioè lo sviluppo del capitalismo, è determinato da una ferrea necessità, simile a una legge naturale. Ma questo sviluppo è allo stesso tempo opera degli uomini che vi partecipano, ciascuno dei quali determina le proprie azioni in modo consapevole e intenzionale, anche se non con la consapevolezza della totalità sociale (…). Ogni necessità sociale è imposta attraverso gli uomini; ciò significa che il pensiero, la volontà e l’azione umana (...) sono completamente determinati dall’effetto dell’ambiente circostante; ed è solo attraverso la totalità di queste azioni umane determinate principalmente dalle forze sociali che la sottomissione alla legge si impone nello sviluppo sociale.” (A. Pannekoek, La teoria del crollo del capitalismo, Rätekorrespondenz n°1, 1934, tradotto per noi dal spagnolo in ¿ Derrumbe del capitalismo o sujeto revolucionario ?, Ediciones Siglo XXI, Cuadernos de Pasado y Presente nº 78)

In altre parole, sebbene i rapporti di produzione che gli uomini stabiliscono tra loro costituiscano l’asse dello sviluppo sociale, i rapporti sociali non si riducono a questi rapporti di produzione, né sono gli unici a determinarli. Tutti sono coinvolti, in particolare le relazioni politiche e la lotta di classe. Contro la “deduzione che il capitalismo deve crollare dal punto di vista puramente economico, nel senso che – indipendentemente dalle interferenze umane e dalle rivoluzioni – non può sopravvivere come sistema economico”, Pannekoek definisce il crollo del capitalismo come nient’altro che il risultato della rivoluzione proletaria:

“L’economia come totalità di uomini che lavorano e faticano per le loro necessità vitali, e la politica (in senso lato) come totalità di uomini che operano e lottano come classe per le loro necessità vitali, costituiscono un unico ambiente che si sviluppa secondo leggi precise. L’accumulazione del capitale, le crisi, l’impoverimento, la rivoluzione proletaria, la presa del potere da parte della classe operaia, formano un’unità indivisibile che agisce come una legge naturale: il crollo del capitalismo.” (Ibidem)

Da parte sua, Paul Mattick, nel difendere il libro di Grossmann, non solo respinge le critiche mosse al libro di un “crollo per ragioni puramente economiche” e “indipendente dall’intervento umano”, ma ribadisce che “l’analisi dell’accumulazione capitalistica conduce alla lotta di classe” e che la fine del capitalismo sarà il prodotto della rivoluzione proletaria. Arriva persino a riprendere la nozione di R. Luxemburg sulla differenza tra la prospettiva di raggiungere un punto in cui l’accumulazione diventa “impossibile” e la realtà storica in cui la rivoluzione proletaria si verificherà “molto prima”:

“Il riconoscimento teorico che il sistema capitalista, a causa delle sue contraddizioni interne, deve necessariamente andare verso il crollo, non implica in alcun modo che il crollo effettivo sia un processo automatico, indipendente dagli uomini (...). Prima che il ‘punto limite’ ottenuto teoricamente sulla base di un insieme di astrazioni incontri il suo parallelo nella realtà, i lavoratori avranno già realizzato la loro rivoluzione.” (P. Mattick, Sulla teoria marxista dell’accumulazione e del collasso, Rätekorrespondenz n°4, 1934, Loc. cit.)

In realtà, Mattick sta sviluppando qui la propria posizione politica, nella quale si separa da Grossmann poiché, per quest’ultimo, il “collasso economico” non è un “punto limite teorico” distinto dalla “rivoluzione”, come afferma Mattick. Al contrario, è il punto in cui “l’impossibilità di continuare l’accumulazione” e il trasferimento del controllo della società nelle mani del proletariato coincidono e si identificano.

Il punto cruciale del dibattito tra Pannekoek e Mattick sull’opera di Grossmann non è quindi la possibilità o meno di un “crollo automatico” del capitalismo, poiché entrambi, oltre a rifiutare esplicitamente questa nozione, ribadiscono chiaramente che la fine del capitalismo avverrà solo con la rivoluzione proletaria. La loro vera divergenza, tuttavia, si concentra proprio sulle condizioni di tale rivoluzione, sulle condizioni di sviluppo della lotta e della coscienza rivoluzionaria del proletariato.

P. Mattick critica Pannekoek per aver ignorato le condizioni materiali necessarie per l’apertura di una situazione rivoluzionaria, un percorso verso la presa rivoluzionaria del potere da parte del proletariato: condizioni di crisi profonda, senza via d’uscita, del capitale, che porterebbero all’impoverimento insopportabile delle masse lavoratrici, le quali sarebbero spinte a una lotta definitiva contro il capitale – una condizione che Mattick, riprendendo i concetti di Grossmann, chiama “tendenza o inizio del crollo”.

E in effetti, per Pannekoek negli anni Trenta, le situazioni catastrofiche del capitalismo (crisi, guerre), sebbene portino a una “perdita di illusioni” sulla possibilità di miglioramento nel quadro del capitalismo e alla lotta di classe del proletariato, sono solo una costante del capitalismo che determina in ultima analisi l’apertura di un percorso verso la rivoluzione. Il fattore determinante, secondo Pannekoek, è la consapevolezza, l’“autoeducazione” delle masse proletarie:

“Sembra una contraddizione che la crisi attuale, così profonda e dannosa come nessun’altra prima, non mostri alcun segno di ripresa della rivoluzione proletaria. Ma la soppressione delle vecchie illusioni è il suo primo grande compito (...). La classe operaia stessa, come massa, deve condurre la lotta e deve adattarsi alle nuove forme di lotta (...). E sebbene questa crisi possa diminuire, dovranno sorgere nuove crisi e nuove lotte. In queste lotte, la classe operaia svilupperà il suo spirito di lotta, troverà i suoi obiettivi, si educherà, diventerà indipendente e imparerà a prendere in mano il suo destino, cioè la produzione sociale (...). L’autoliberazione del proletariato è il crollo del capitalismo.” (Pannekoek, Loc. cit.)

Al contrario, per Mattick, è proprio la tendenza al collasso economico del capitalismo, al peggioramento delle condizioni di vita del proletariato, che porterà, in modo naturale, spontaneo (potremmo anche dire meccanico), alla lotta rivoluzionaria della classe:

“Le lotte di classe dipendono dalla posizione di classe del proletariato. Esse avranno sempre e necessariamente un carattere economico. Solo quando inizierà il crollo, cioè quando il capitale potrà continuare a esistere solo sulla base dell’impoverimento assoluto e continuo delle masse, questa lotta economica si trasformerà, che le masse ne siano consapevoli o meno, in una lotta politica che solleva la questione del potere (...). La rivoluzione si impone agli uomini attraverso questa situazione economica.” (P. Mattick, Loc. cit.)

Così, mentre per Pannekoek la coscienza di classe è il fattore determinante, per Mattick al contrario la coscienza di classe è semplicemente un prodotto, un riflesso delle condizioni materiali e dell’attività spontanea delle masse. E non svolge alcun ruolo attivo nella trasformazione delle lotte “economiche” in lotte “politiche”. Per Mattick, la rivoluzione nasce unicamente dalla “necessità” economica, di cui la coscienza è solo un riflesso passivo:

“… La coscienza deve alla fine imporsi. Ma in queste condizioni [nel capitalismo] può farlo solo prendendo forma concreta. Gli uomini fanno di necessità ciò che farebbero di loro spontanea volontà (...). L’insurrezione delle masse non può svilupparsi a partire dalla ‘coscienza-intelletto’; le condizioni di vita capitalistiche escludono questa possibilità, poiché la coscienza è in definitiva sempre quella della pratica esistente. Eppure, le necessità materiali delle masse le spingono all’azione come se fossero realmente educate alla rivoluzione; diventano ‘coscienti dei fatti’. Le loro necessità vitali non hanno altra possibilità di espressione che quella rivoluzionaria. L’azione rivoluzionaria del proletariato non può essere spiegata da nessun altro motivo se non quello dei suoi bisogni materiali vitali. Ma queste dipendono dalla condizione economica della società. Se il capitale non ha un limite oggettivo, non possiamo nemmeno contare su una rivoluzione.” (Ibidem)

Da un lato, Pannekoek giunge alla conclusione che la nozione di “collasso economico” non è altro che un altro sotterfugio per introdurre la giustificazione della necessità di un partito che guidi le masse proletarie, perché, sulla base di questa nozione, si tende ad accettare che l’insurrezione rivoluzionaria possa avvenire senza che le masse proletarie siano “maturate rivoluzionariamente”, cioè senza che sia necessario che abbiano raggiunto la coscienza di classe. Basta che un partito prenda il potere in loro nome:

Dalla teoria di Grossmann possiamo dedurre che la rivoluzione “è indipendente dalla loro maturità rivoluzionaria, dalla loro capacità di prendere in mano il controllo [”dominio” nella versione spagnola] sulla società e di mantenerlo. Ciò significa che un gruppo rivoluzionario, un partito con obiettivi socialisti, deve emergere come nuova autorità [“dominio”, sempre nella versione spagnola] per sostituire quella vecchia...” (Pannekoek, Ibidem)

D’altra parte, Mattick conclude che la pauperizzazione assoluta che accompagna il “collasso economico” sarebbe sufficiente per l’apertura di un corso rivoluzionario, poiché la coscienza sarebbe solo qualcosa di posteriore e passivo, un riflesso dell’attività delle masse stesse, che sorgerebbe per pura “necessità” economica.

Così, dietro la polemica sul “crollo”, possiamo vedere come, all’interno della corrente “consiglierista”, si sia separato ideologicamente il rapporto dialettico tra le condizioni materiali (“economiche”) e le condizioni organizzative e di coscienza (“politiche”) essenziali per aprire un corso verso la rivoluzione. Ma, come giustamente sottolineano i compagni del BIPR:

O interviene il fattore soggettivo che ha nella lotta di classe il suo fulcro materiale e storico e nelle crisi la premessa economicamente determinante, oppure il sistema economico si riproduce riproponendo a livelli più alti tutte le sue contraddizioni, senza per questo creare le condizioni della propria auto distruzione...”

La nuova teoria della CCI sul “collasso automatico del capitalismo”

Non possiamo concludere questa rapida panoramica sulle teorie del “collasso” senza menzionare la teoria della “decomposizione sociale” difesa dall’attuale CCI. Non intendiamo ripercorrere la critica generale di questa teoria, che abbiamo già toccato in diverse occasioni. [7] Qui vogliamo solo richiamare l’attenzione sul modo in cui questa teoria, nella misura in cui è diventata la bandiera di un’organizzazione in degenerazione, si è trasformata sempre più in una teoria con caratteristiche simili a quelle delle teorie del collasso del passato.

Espressa in termini generali, questa teoria difende l’impasse storica raggiunta dalle due classi fondamentali della società capitalista, la borghesia e il proletariato, con la persistenza della crisi economica che apre la strada a una fase “terminale” della decadenza del capitalismo. L’impasse storica è dovuta al fatto che le due classi sociali, con il proletariato che riesce a frenare lo scoppio di una nuova guerra imperialista mondiale ma rimane incapace di elevare le sue lotte al livello di un movimento rivoluzionario internazionale, si bloccano a vicenda il cammino verso le rispettive soluzioni storiche alla crisi economica cronica del capitalismo. La fase “terminale” della decadenza porta poi a una crescente disgregazione del tessuto sociale, a una crescente disintegrazione delle relazioni sociali in tutti i settori e in tutte le classi, al “ciascuno per sé”, al caos, all’irrazionalità e a calamità di ogni tipo (terrorismo aggravato e incontrollato, guerre e conflitti regionali, disastri causati da fenomeni naturali, carestie, epidemie, gangsterismo, ecc.) Ma le conseguenze più importanti della decomposizione sono a livello di classi sociali. D’altra parte, l’influenza della decomposizione all’interno del proletariato comporta il pericolo che quest’ultimo perda definitivamente la capacità di unificarsi, di prendere coscienza e di estendere la propria lotta rivoluzionaria, aprendo la strada a una terza “via”: la fine dell’umanità attraverso la decomposizione.

È certo che la teoria della decomposizione contiene fin dall’inizio un elemento di “collasso”: la possibilità che il capitalismo (e con esso l’intera umanità) giunga alla fine non come prodotto della lotta di classe, ma come prodotto del prolungamento indefinito e senza speranza della crisi, della semplice impossibilità di continuare ad andare avanti come sistema. Tuttavia, va notato che all’inizio – e per molti anni – accanto alla nozione di “decomposizione”, la CCI ha mantenuto – in modo contraddittorio – l’analisi marxista “classica” della crisi, delle lotte imperialiste e della lotta di classe. Ad esempio, nelle tesi del 1990 sulla decomposizione, questa era ancora vista come un fenomeno della “sovrastruttura”, cioè come un “effetto”, mentre la crisi economica era ancora vista come il fattore determinante della situazione sociale:

“la crisi economica, contrariamente alla decomposizione sociale che concerne essenzialmente le sovra-strutture, è un fenomeno che colpisce direttamente l’infrastruttura della società sulla quale riposano queste sovrastrutture; in questo senso, essa mette a nudo le cause ultime dell’insieme della barbarie che si abbatte sulla società, permettendo così al proletariato di prendere coscienza della necessità di cambiare radicalmente sistema, e non di cercare di migliorare degli aspetti di questo.” ([Tesi su: La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo, Tesi 17, Revue internationale 62, 1990, sottolineato da noi [8])

Ora, invece, la CCI non solo è giunta alla conclusione che la decomposizione è diventata un “fattore decisivo nell’evoluzione della società” o che “è il fattore centrale nell’evoluzione dell’intera società”, ma che “la decomposizione significa un lento processo di annientamento delle forze produttive fino al punto in cui la costruzione del comunismo diventa impossibile.” (Les racines marxistes de la notion de décomposition [9], Revue internationale 117, 2004, sottolineato y tradotto da noi) [10]

Qui la CCI non si riferisce alla distruzione delle forze produttive che provoca la crisi capitalista, ma al capitalismo nel suo insieme nella fase di decomposizione in cui sarebbe entrato. Si riferisce ad un processo generale che “conduce lentamente ma irreversibilmente alla distruzione dell’umanità”: “il processo di distruzione dell’umanità, sotto gli effetti della decomposizione, anche se lento e subdolo, è irreversibile.” (Ibidem) Cioè che per la CCI il modo di produzione capitalistico non implica più una tendenza allo sviluppo delle forze produttive.

Ma proprio il contrario. Implica un processo di distruzione delle forze produttive. Così, l’attuale CCI nega la sua teoria della decadenza che, respingendo la tesi di Trotsky secondo cui “le forze produttive dell’umanità hanno smesso di crescere”, difendeva che i blocchi assoluti della crescita delle forze produttive appaiono bene durante le fasi di decadenza. Ma (nel sistema capitalista, la vita economica non può esistere senza accumulazione crescente e permanente del capitale), essi sorgono solo momentaneamente.” (Opuscolo en francese della CCI sur La décadence du capitalisme, ch. Quel développement des forces productives ?, sottolineato en la verzione originale, tradotto da noi)

Ma con la sua nuova definizione, l’attuale CCI non solo nega la sua teoria della decadenza, ma rifiuta anche, semplicemente, né più né meno, che la contraddizione fondamentale del capitalismo come fu enunciata da Marx stesso anche per chi questa contraddizione consiste nel fatto che

“La produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive (…) ma nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione (…) I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale (...) si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro.” (K.Marx, Il Capitale, Tome III, ch. XV, Conflitto fra l’estensione della produzione e la valorizzazione, sottolineato da noi) [11]

Nello stesso senso, in origine la CCI era capace di analizzare e riconoscere, a livello della vita della borghesia, che esisteva al tempo stesso “la tendenza ad ognuno per sé e al caos” e la tendenza alla formazione di un nuovo gioco di blocchi imperialisti come tendenze contraddittorie che agiscono simultaneamente. Oggi, in cambio, la CCI infila sempre più l’idea che le grandi potenze non si stanno più dirigendo verso una guerra imperialista generalizzata ma che esse sarebbero sempre più – e in primo luogo gli Stati Uniti – i principali promotori della pace e dell’ordine sociale con i loro tentativi di prevenire la caduta dei paesi e delle regioni dalla periferia del capitalismo nel caos locale e nelle guerre. Così apre le porte all’opportunismo, cioè a una politica di collaborazione delle classi.

Infine, rispetto al proletariato, mentre in origine la decomposizione significava “difficoltà supplementari” per la sua lotta, ora la CCI sviluppa sempre più la nozione di “perdita d’identità” della classe operaia per introdurre l’idea che con la decomposizione saremmo entrati in una fase di disgregazione e smembramento della classe operaia, settore dopo settore, cioè in un processo di scomparsa pratica della classe operaia come tale.

Infine, l’erosione dei fondamenti del marxismo nel campo “economico” ha la sua contropartita nella loro erosione anche nel campo “politico”:

“La decomposizione obbliga il proletariato a affinare le armi della sua coscienza, della sua unità, della sua fiducia in se stesso, della sua solidarietà, della sua volontà e del suo eroismo (...)”, afferma oggi la CCI. Tuttavia, secondo questa stessa CCI, la decomposizione produce esattamente il contrario: “gli effetti della decomposizione hanno un impatto profondamente negativo sulla coscienza del proletariato, sul suo senso di sé come classe (...). Servono a atomizzare la classe, ad aumentare le divisioni in essa e a dissolverla (…).” (Les racines marxistes de la notion de décomposition, Revue internationale 117)

Come si può dunque dire che “la decomposizione obbliga il proletariato ad affilare le armi della sua coscienza”, ecc... ? Quando, per esempio, il marxismo (e con esso la “vecchia” CCI) afferma che la crisi, aggravando le condizioni di vita del proletariato, lo “obbliga” a sollevarsi, a lottare, esprime una necessità oggettiva, prodotto delle stesse condizioni materiali del capitalismo. Invece, ora, quando la CCI afferma che “la decomposizione obbliga il proletariato ad affilare le armi della sua coscienza”, non esprime una necessità oggettiva.

Ciò che esprime è semplicemente il desiderio della CCI stessa che il proletariato “affili le armi della sua coscienza” ecc., desiderio che tuttavia non ha alcuna sostanza materiale (perché secondo la CCI stessa ciò che produce la decomposizione in modo oggettivo è esattamente l’opposto). Così, la CCI riduce il determinismo storico a un semplice imperativo morale.

Tutta questa “evoluzione” della teoria della decomposizione in seno della CCI, e in particolare negli ultimi anni, non può essere spiegata che come un semplice riflesso della moltiplicazione e dell’estensione dei fenomeni che cerca di spiegare. È vero che alla fine degli anni ’80 abbiamo assistito effettivamente ad un periodo di “impasse storica” che è stato confermato dalla caduta del blocco imperialista dell’Est.

Con essa, non solo il pericolo di una terza guerra mondiale si è momentaneamente allontanato ma soprattutto il proletariato, senza tuttavia subire una sconfitta storica della portata di quella che ha vissuto a partire dalla metà degli anni 1920, è entrato in un periodo di confusione, di demoralizzazione e di arretramento delle sue lotte come prodotto dell’implosione del blocco dell’Est e della campagna sviluppata dalla borghesia sulla “fine del comunismo”, la “vittoria finale della democrazia” e la “fine della storia”. Ed è nell’interpretazione di questo periodo che si trova l’origine e la spiegazione della teoria della “decomposizione sociale”.

Tuttavia, e specialmente a partire dal 2001 (segnato dalla distruzione delle Twin Towers di New-York), con la nuova espressione aperta di una tendenza alla bipolarizzazione imperialista e alla guerra generalizzata da un lato, e dall’altra parte con manifestazioni da parte del proletariato di una ripresa internazionale delle sue lotte di classe (Argentina, Francia, Gran Bretagna, Italia...), cioè con il ritorno sulla scena storica dell’alternativa della “guerra o rivoluzione”, è noto che la CCI non solo non è stato più in grado di analizzare questo cambiamento, né di riconoscere che “l’impasse storica” poteva essere solo momentanea. Ma arriva anche al punto di negare – e persino nascondere consapevolmente e volontariamente – queste espressioni dell’alternativa storica di classe e di abbandonare sempre più fino alle nozioni di base del marxismo per sostenere, in cambio, introdurre e imporre la teoria della decomposizione anche se questa si rivela ogni volta più priva di consistenza e assurda.

Così, come negli altri casi di teorie del “collasso”, la predominanza dogmatica della teoria della “decomposizione” a scapito dell’analisi marxista, non si spiega solo con le condizioni sociali “oggettive, e ancor meno quando queste ultime tendono a cambiare e a smentire sempre più chiaramente la teoria che cercava di spiegarle. Questo si comprende solo dalle difficoltà interne dell’organizzazione in cui è sorta questa teoria, dalla perdita di capacità critica e analitica, perché all’interno di essa esistono ostacoli per mettere in discussione questa teoria. E, infine, perché questa teoria si è trasformata in uno strumento per giustificare un determinato orientamento, posizionamento e atteggiamento politico.

È degno di nota che l’atteggiamento politico dell’attuale CCI presenta anche alcune analogie con quello dei vecchi “consiglisti”. Infatti, i consiglisti ritenevano che la classe operaia non avesse bisogno di un’organizzazione politica che l’orientasse, che la dirigesse politicamente (o, in ultima istanza come nel caso di A. Pannekoek, riducevano il ruolo dei rivoluzionari ad una specie di educatori o consiglieri), posizione che comportava in sé la dissoluzione delle organizzazioni conseilliste stesse. Da parte sua, l’attuale CCI adotta sempre più un atteggiamento di passività e di disprezzo nei confronti delle lotte operaie che nega implicitamente la sua funzione come fattore attivo di orientamento e d’impulso in seno alla classe operaia (o che riduce il suo ruolo a “coltivare e sviluppare in profondità e in estensione queste qualità” [(sic) “Le radici marxiste della nozione di decomposizione”, Ibidem] della classe operaia per contrastare gli effetti della decomposizione), ciò che contiene in sé la sua liquidazione a termine. E come segnala il BIPR è certo che sia la teoria del “collasso” che quella della “decomposizione” finiscono “per avere delle negative ripercussioni sul terreno politico, ingenerando l’ipotesi che per vedere la morte del capitalismo sia sufficiente sedersi sulla sponda del fiume.”

Infine, la teoria della “decomposizione sociale” ha guadagnato anche il campo del funzionamento dell’organizzazione dei rivoluzionari. Secondo lei, la decomposizione sociale contiene anche una tendenza degli militanti a lasciarsi trascinare dall’individualismo e dall’ideologia borghese in generale, a formare clan e bande all’interno dell’organizzazione; è la ragione per cui la teoria della decomposizione che si è introdotta e domina la CCI in questi ultimi anni, è servita anche, prima di tutto, a giustificare la politica di tipo “bolchevizzazione”, disciplinare, di “laminazione” delle opinioni divergenti, soffocare i dibattiti e vietare le opposizioni (frazioni) con il pretesto della lotta contro i “clan” e gli “elementi confusi”. Così, come nelle altre teorie del “crollo”, dietro la teoria della decomposizione si scopre la tendenza alla liquidazione – in una forma o nell’altra – dell’organizzazione rivoluzionaria.

La Frazione interna della CCI, Giugno 2004 (boletino 26)

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Notes:

[1. La nostra piattaforma politica, come le critiche alla piattaforma della CCI, non è stata tradotta in italiano. Rimandiamo i lettori alle versioni in inglese, francese o spagnolo. Solo le nostre “posizioni di base” sono disponibili in italiano: http://igcl.org/+Posizione-de-base-del-Gruppo+

[3. È quanto abbiamo cercato di mostrare nella serie di articoli sulla storia della teoria della decadenza pubblicati nel nostro bollettino (nn. 19, 20, 22 e 24).

[4. Questa esigenza è sentita nel campo proletario, come dimostra non solo il recente dibattito intorno alla CCI (NCI argentina, gruppo russo), ma anche la recente pubblicazione di altri articoli sul tema da parte di altri gruppi o individui.

[5. Esistono differenze sostanziali tra la versione francese di questo libro (edizione Maspéro) e quella spagnola (edizione Grijalbo). Ci sembra che quest’ultima sia meno “assoluta” e più precisa. Abbiamo quindi tradotto questo passaggio direttamente dalla versione spagnola.

[6. H.Grossmann, La legge dell’accumulazione e il crollo del sistema capitalistico, ch.2-VIII, La teoria marxista del collasso è contemporaneamente una teoria delle crisi, tradotto da noi dal spagnolo, Edición Siglo XXI, 1979.

[7. Si veda ad esempio L’évolution aléatoire de ce qui fut une organisation marxiste (et donc déterministe), bollettino 21 della nostra frazione, ottobre 2003, Guerre impérialiste ou révolution prolétarienne: la décadence du capitalisme et le marxisme (4e partie) e Contresens dans la théorie de la décomposition et les pas du CCI vers l’opportunisme, bollettino 24, aprile 2004.

[9. [Nota dal GISC: non abbiamo trovato la traduzione en italiano sull’ sitio web de la CCI]

[10. Questo articolo che pretende di stabilire “le radici marxiste della decomposizione”, cerca di colmare le lacune revisioniste aperte dalla Risoluzione del XV Congresso sulla situazione internazionale e che abbiamo messo in evidenza (cfr. il nostro bollettino 21). La nostra critica ha creato un certo disagio tra molti militanti e simpatizzanti della CCI. L’illustre liquidazionista che ha redatto l’articolo si vede quindi costretto, per tentare di tagliare corto alla critica, ad affermare che “il marxismo ha sempre posto in termini di alternativa il desinere dell’evoluzione storica” e che “più che mai, la lotta di classe del proletariato è il motore della storia.” Non mangia pane e soddisferà i seguaci della fazione familiare. Ma la risoluzione del congresso è ancora lì e non è stata corretta dal 16o congresso di RI che si è appena tenuto. Soprattutto, come il nostro lettore potrà rendersi conto in questa parte del nostro testo, la deriva opportunista sul piano teorico e la revisione delle posizioni marxiste continuano a essere più belle nell’articolo della Rivista internazionale. Cercando di colmare alcune lacune opportunistiche, ne apre di nuove. Il fondamento marxista della nozione di decomposizione è più che traballante dal primo degli articoli della serie annunciata sull’argomento.