Accueil | Version imprimable |
La vittoria elettorale di Trump: la borghesia statunitense intensificherà i preparativi per la guerra...
La massiccia elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti non è un caso. Non è nemmeno il risultato di una crisi o di una profonda divisione, per non parlare de un caos, all’interno della borghesia americana e del suo sistema politico e statale. Né di una follia dell’elettorato, né di un’irrazionalità che si è impossessata della prima potenza imperialista del mondo. Al contrario, la sua vittoria schiacciante dimostra che l’apparato statale americano ha padroneggiato il suo gioco elettorale e il suo sistema politico. E se ci fossero dubbi, l’immediata presa d’atto da parte dei democratici e della stessa Kamala Harris della sua sconfitta e l’assicurazione che farà il possibile per favorire il passaggio alla presidenza basterebbero a fugarli definitivamente.
L’elezione – o la rielezione – dell’oltraggioso e volgare Trump è semplicemente l’espressione dell’acutezza raggiunta dall’impasse economica e storica del capitalismo e delle pressioni che esso esercita verso una guerra imperialista generalizzata. A quindici anni dalla crisi finanziaria del 2008, il livello delle contraddizioni economiche ci costringe a una competizione sempre più esacerbata, a una lotta all’ultimo sangue per la sopravvivenza di ciascun capitale nazionale, che a sua volta non può che provocare e aggravare le rivalità e la polarizzazione imperialiste.
L’elezione di Trump indica che la corsa verso la guerra generalizzata si sta intensificando e che la borghesia americana vi si dedica con determinazione. Che le principali frazioni della borghesia americana ritengono che il tempo stia per scadere. Che hanno concordato sull’urgente necessità di accelerare l’adattamento dell’intero apparato militare-industriale americano alle esigenze della guerra ad “alta intensità”. Hanno concordato sulla necessità di aumentare la pressione sulla Cina, di esercitare un maggiore contenimento su di essa e, di riflesso, sui Paesi dell’Unione Europea, intensificando la guerra commerciale e il protezionismo. La borghesia americana ha poco tempo a disposizione e deve scuotere sia la società americana stessa sia le “relazioni internazionali”, cioè le relazioni imperialiste.
Dato il ritmo della spirale in cui le contraddizioni economiche e le rivalità imperialiste stanno mandando il mondo capitalista, doveva muoversi ancora più velocemente e con maggiore determinazione. La vittoria elettorale di Trump non segna una rottura fondamentale con le politiche dai Democratici portate avanti dal 2020. Né mette in discussione la politica economica protezionista volta, in particolare, a rimpatriare sul suolo americano gran parte dell’apparato produttivo dei cosiddetti beni essenziali – “essenziali” per la guerra. Tanto meno mette in discussione la politica imperialista americana perseguita dai Democratici e da Biden. Così come le Bidenomics e le politiche imperialiste perseguite da Biden non hanno messo in discussione le misure protezionistiche varate da Trump durante la sua prima presidenza dal 2016 al 2020 e la sua attenzione imperialista verso la Cina, le politiche economiche e imperialiste che la nuova amministrazione Trump perseguirà non romperanno fondamentalmente con quelle degli anni di Biden. Non c’è, né ci sarà, una rottura. C’è continuità, ci sarà continuità intorno agli assi centrali della politica imperialista del capitale americano. D’altra parte, e questo è il motivo per cui è stato scelto Trump piuttosto che Kamala Harris, la nuova presidenza Trump preannuncia un’accelerazione violenta e brutale della guerra commerciale e della pressione imperialista – e soprattutto militare – decisa e accettata dall’imperialismo statunitense; e un’accelerazione della riorganizzazione di tutto l’apparato produttivo industriale – già in corso con le Bidenomics – e in particolare dell’apparato militare-industriale. Paradossalmente, questa “accelerazione” deve essere accompagnata da un guadagno di tempo affinché la produzione militare possa essere aumentata per soddisfare le esigenze della guerra “ad alta intensità”, di cui Trump e il Partito Repubblicano “isolazionista” sono oggi la migliore espressione.
C’era quindi un vero e proprio problema, o “dibattito”, sugli assi e le priorità della politica imperialista statunitense che queste elezioni presidenziali avrebbero dovuto risolvere. Si doveva perseguire la cosiddetta politica “internazionalista” dei democratici, cioè affrontare la Russia in Ucraina, l’Iran in Medio Oriente e la Cina in Asia e nel Mar Cinese? Oppure adottare la cosiddetta politica “isolazionista” dei repubblicani, ossia concentrarsi principalmente sulla questione cinese, lasciare che Israele conduca le sue guerre in Medio Oriente, con l’Iran come obiettivo, e possibilmente lasciare che Putin tragga vantaggio dalle sue conquiste territoriali in Ucraina? Il dibattito non riguardava la guerra o la pace, ma la priorità e il ritmo dei preparativi per la guerra.
Per scioccare e provocare, per coinvolgere l’intera società americana nella decisa preparazione e marcia verso la guerra, occorre una figura dirompente, provocatoria, oltraggiosa, brutale e persino volgare. Una figura, per quanto ridicola, che incarnasse un potere forte e che non esitasse a liberarsi dalle regole – intese come pastoie – della democrazia classica. Per la borghesia americana, il tempo sta per scadere e il destino e i rivali devono essere forzati. Harris non poteva incarnare questo personaggio. Trump sì. Non si è forse dimostrato in questo registro quattro anni fa? La preparazione di la guerra generalizata richiede personale politico adatto al compito e in grado di liberarsi dalle pastoie democratiche e diplomatiche e dal decoro. “Parlare dei propri nemici come del “nemico interno”, usare l’espressione “parassiti” o “sangue avvelenato” sono termini presi direttamente dagli anni ’30.” (Anne Applebaum, The Atlantic, 7 novembre 2024)
Il risultato elettorale sembra quindi aver deciso quale strategia utilizzare per riaffermare con forza e violenza la supremazia americana. La rielezione di Trump significa che ha scelto sia di accelerare i preparativi interni per la guerra sia di intensificare l’offensiva di “contenimento” contro i rivali imperialisti. Questo adattamento accelerato potrebbe – usiamo il condizionale, sono solo ipotesi – coinvolgere l’imperialismo statunitense da:
prendere atto dell’impotenza dell’Ucraina di fronte all’esercito russo e interrompere il massiccio sostegno alla prima;
permettere, o in altre parole incoraggiare, Israele a estendere la sua guerra regionale all’Iran.
E certamente da :
imporre una guerra commerciale intensificata alla Cina – e, tra l’altro, a un’Europa già indebolita – attraverso il protezionismo brandito come un vessillo;
costringere i Paesi europei a farsi carico dei costi di mantenimento della NATO, e quindi ad acquistare armi americane, con il rischio di un disimpegno e della fine dell’ombrello nucleare americano.
L’aumento dei dazi doganali, il protezionismo in mostra, non può che riaccendere la guerra commerciale globale. Non può che esacerbare le attuali difficoltà economiche della Cina e la sua sensazione di essere stretta nella morsa delle politiche americane, che a loro volta non possono che provocare reazioni sempre più aggressive, anche militari, da parte della Cina – la pressione navale e aerea cinese su Taiwan è in costante aumento. Così come spaventa le borghesie europee, a partire dalla Germania.
“La rielezione di Trump (...) è anche un cambiamento di gioco per gli alleati dell’America.” (Financial Times, 6 novembre) La vittoria di Trump ha già causato, o almeno accelerato, la rottura del governo di coalizione in Germania. E questo in un momento in cui la stessa Francia è entrata in un periodo di instabilità governativa. Appena annunciata, la vittoria di Trump ha esacerbato le contraddizioni e polarizzato le posizioni. La posta in gioco è sempre più chiara. E la borghesia europea sembra essere stata presa da un vero e proprio panico di fronte a ciò che il secondo mandato di Trump preannuncia per il capitale e l’imperialismo europeo: la continuazione di un indebolimento storico che rischia di diventare definitivo.
La vera questione storica riguarda il proletariato americano e internazionale e il livello di sostegno delle grandi masse alle tesi nazionaliste, razziste, xenofobe, ecc. sostenute da Trump. Lo stesso vale, ovviamente, per le masse proletarie che seguono i partiti di estrema destra in Europa e altrove. Esiste una dinamica particolare – e preoccupante – di sostegno diffuso al nazionalismo e alla guerra tra le grandi masse proletarie?
Si noti che il numero di elettori che hanno votato per Trump nel 2024 non è aumentato rispetto al 2020. [1] Più in generale, e in ogni momento dal dopoguerra, frazioni significative della classe operaia hanno votato per i partiti di destra – circa il 30% sia negli Stati Uniti che in Europa occidentale. Di per sé, quindi, il voto pro-Trump della classe operaia non fornisce alcuna indicazione di una particolare nuova dinamica di sostegno a una vera e propria marcia verso la guerra che rompa con gli anni precedenti. Allo stesso modo, e nell’altra direzione, non si può trarre alcuna indicazione significativa dalle recenti espressioni di combattività proletaria. Rompendo con una lentezza decennale, questa combattività, anche se ancora ben sorvegliata dai sindacati, si è espressa e sviluppata in modo significativo negli ultimi due o tre anni negli Stati Uniti. Anche durante la campagna elettorale, ad esempio tra i portuali e alla Boeing.
Questa è la vera interrogazione. È qui che risiede la vera equazione. Riuscirà a emergere una frazione del proletariato americano, o del proletariato internazionale, capace di offrire un’alternativa di classe, cioè una lotta e una prospettiva rivoluzionaria, al terreno borghese della democrazia e del nazionalismo ripugnante? E di condurre il resto della classe operaia sul terreno della difesa delle proprie condizioni di vita e dell’internazionalismo, costringendola così a prendere le distanze dalla stupefazione e dall’intossicazione del nazionalismo, a volte odioso e razzista, e dall’intossicazione collettiva del grido USA! USA! ?
Accelerazione della preparazione alla guerra, abbiamo qualificato il significato della vittoria elettorale di Trump. Nell’equazione della borghesia americana, l’imposizione al proletariato dei sacrifici necessari per la guerra commerciale e la preparazione della guerra non richiede forse anche un’accelerazione, per guadagnare velocità rispetto a qualsiasi velleite di risposta proletaria?
Sia nei confronti dei rivali imperialisti che del proletariato, la vittoria elettorale di Trump significa che la borghesia statunitense vuole accelerare i tempi e conquistare tutti con rapidità. Kamala Harris aveva ragione su una cosa: “we are not going back.” [non torneremo indietro”]